by Enrico Pastore (31/05/2020)
Per la trentasettesima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Roma per incontrare la Compagnia Ragli. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Compagnia Ragli si occupa di teatro civile e sociale ed è stata fondata da Rosario Mastrota, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona. Ospite dei importanti festival e più volte finalista al Premio Hystrio ha prodotto numerosi lavori tra cui: Salve Reggina!, L’Italia s’è desta, Panenostro, Ficcasoldi, Border Line.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La risposta ad entrambe le domande è: il gruppo di lavoro. Attori, registi, scenografi e tecnici fanno parte della creazione artistica allo stesso modo. Ognuno accresce lo sviluppo con la propria tecnica trasformandola in arte. L’efficacia è corale e appartiene a tutti. Il pubblico stesso deve far parte di questa squadra. Non è importante che comprenda tutto immediatamente ma è essenziale che sappia interrogarsi. Le risposte non sempre servono. Ogni percorso di creazione scenica richiede, a mio avviso, un concatenarsi di relazioni essenziali che determinano la calibratura necessaria, per chi partecipa a questo rito, a soddisfare le personali urgenze
di ciascuno. La propositività determina l’evoluzione. Poi ci sono le storie, indispensabili altrettanto. Noi (Compagnia Ragli) lavoriamo in team, la maggior parte del tempo la dedichiamo all’esplorazione delle possibilità che possono derivare dall’allestimento. Attori e regista si muovono in relazione costruttiva per spianare il campo a scenografi e tecnici. Il risultato finale (lo spettacolo) seppur definito e strutturato ci riserva sempre diversi sentori e diverse reazioni del pubblico. Infatti è sempre costruttivo cogliere alcune letture recepite da un punto di vista inatteso. È capitato, per esempio, durante alcune repliche de L’Italia s’è desta. Al Nord c’era una diversa reazione rispetto al Sud, un tema arcaico come il rapimento (nello spettacolo raccontavamo, mediante l’escamotage della fake news, che la ‘ndrangheta rapisse la Nazionale di calcio a due mesi dall’inizio dei Mondiali) ha visto ilarità spensierata nelle repliche lombarde e timore e imbarazzo in quelle in Calabria.
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Istituire una valutazione delle proposte artistiche più pluralista. Libertà e verità dovrebbero essere metro di giudizio inequivocabili, invece troppi vincoli o cavilli tecnici rendono alcuni percorsi più complicati se non impossibili. I tecnicismi non possono valutare l’arte.
In alcuni stati esteri c’è meno settorialismo e all’Artista vengono concesse più libertà per sviluppare l’idee o la poetica, senza il vincolo di parametri o celle di Excel. In alcuni casi di questo processo produttivo italiano si punta alla celebrazione di “nomi” anziché “attori” o di “firme” anziché “storie”. Le residenze creative dovrebbero essere la normalità, un processo del sistema produttivo Italiano, come le fabbriche. Festival e concorsi idem, come Sanremo (in senso di importanza mediatica). Per migliorare il processo, sempre a mio avviso, potrebbe essere funzionale educare la gente al Teatro e alla sua importanza, non all’ammirazione della vetrina che può scintillare se in scena ci sta “quello famoso della tele…” . Da due anni, in collaborazione con Dasud e ÀP Accademia, ci occupiamo del Premio Mauro Rostagno, una manifestazione per spettacoli a tema diritti umani. Non valutiamo su criteri matematici, valutiamo l’energia dedicata dalle Compagnie alla trattazione di temi così delicati. Il nostro riconoscimento (1000 euro) è un atto simbolico per sostenere quelle volontà e legittimarne il coraggio.
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Non può esserci la distribuzione di un prodotto (creativo) se il prodotto stesso è reputato inferiore a quello di altre arti. Bravi o meno bravi non dovrebbe dirsi degli artisti. Professionisti o non-professionisti nemmeno. L’artista è libero. Chi può dire se è più bravo Van Gogh di Picasso o Carmelo Bene di Vittorio Gassman? Di certo non chi organizza, non chi gestisce la Cultura, non il numero dei C1.
La Critica si avvicina a qualcosa che sta in mezzo a questa decisione ma la missione è troppo nobile, delicata, ardua. Ce ne sono tracce in Italia, per fortuna.
Io cambierei la parola distribuzione con opportunità. Opportunità per la gente di vedere linguaggi di artisti differenti. Le tournée, che bellissimo ricordo di un periodo di grandi sperimentazioni; si arrivava un po’ dappertutto, certo non tutti erano noti ma tutti riuscivano a moltiplicare le opportunità.
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Per coerenza con quanto detto prima non posso dire cosa è unico e irripetibile e cosa, invece, è sciatto e da evitare. I linguaggi adoperati mutano, è naturale, l’arte si adegua, racconta il presente, vede il futuro e parte sempre dal passato. Uno spettacolo “da remoto”, senza corpi, con occhiali tridimensionali o proiezioni olografiche non andrei a vederlo, ma è un gusto personale. Ma è un’espressione anche quella, non so se è moda o impigrimento o addirittura necessità ma è qualcosa. Tranciare una tela o appendere una banana è un’idea artistica, una visione, esattamente come dipingere la Monna Lisa o creare Amleto. Però io mi ricorderei più nitidamente l’ebbrezza procurata dal monologo della non-follia di Ofelia, di uno spettacolo interattivo; per quel tipo di emozioni posso anche andare in sala giochi o usare una Playstation. Il teatro è fatto di carne. L’unicità della replica (ossimoro per antonomasia) è reale. Seppur ciclico, il teatro vive ogni sera di differenze: emozioni, tecniche, sociali. Il teatro è vivo per questo motivo: perché respira come le persone.
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Post -verità, per me, è sinonimo di immaginazione. Io posso immaginare un cavallo con un corno sulla fronte, posso disegnarlo, posso anche mettergli le scarpe e farti credere che esista nel mio garage e ogni sera mangia sushi fino a scoppiare. Ma non è dell’unicorno che ti sto parlando ma di un politico. Trasfigurare la Natura è un’arma innocua che detiene ogni regista, si parte da lì non c’è scampo. L’oggi e il racconto del reale potrebbero sfiduciare se raccontati solo in senso distruttivo, caotico o ipercritico. L’oggi è lì, fuori, alla portata di tutti, raccontarlo in maniera naturalistica non è teatro, diventa reportage. La critica al reale, in senso democratico, spetta alla politica, quella vera. Il teatro non è politico. La resistenza è un atto umano, la guerra è un atto politico. Spero di aver reso il concetto.
Noi (Compagnia Ragli) ci occupiamo di un teatro civile che non ha l’ambizione di educare o modificare le percezioni di nessuno. Proviamo a idealizzare alcuni atti reazionari o di opposizione di personaggi realmente esistiti e li reinventiamo nello spirito dei nostri personaggi. A volte, durante le ricorrenze per esempio, quando si ricorda qualcuno che è stato ucciso o che non c’è più, la pietà prende il sopravvento. Ci si impietosisce, si commemora, si ricorda solo l’affezione spesso dimenticando l’azione. Noi proviamo a scivolare via dal sentimentalismo e, immaginando altri mondi possibili, ricamiamo storie eccezionali a vite o personaggi invisibili.
Uno dei nostri personaggi, Carla, de L’Italia s’è desta, per esempio, vive nel mondo reale ma è capace di vedere molti più mondi possibili, nella sua meravigliosa folle libertà.