by Enrico Fiore (28/05/2019)
CASTROVILLARI – «Amo la vita, tutta la vita, la vita magica, meravigliosa e risplendente in tutte le sue manifestazioni, in tutte le sue forme, nelle sue attività quotidiane e nelle sue feste, nella sua superficie e la sua profondità…».
È la dichiarazione di Milena Jesenská, l’amica di Kafka che morì nel campo di concentramento di Ravensbrück, posta in epigrafe a «The speaking machine (La macchina da parlare)», il testo della catalana Victoria Szpunberg presentato dalla Compagnia Ragli, in «prima» nazionale, nell’ambito della XX edizione del festival «Primavera dei Teatri». E aggiungo subito che mai epigrafe fu più illuminante: giacché sottolinea per contrasto, e quindi in maniera particolarmente efficace, il tema fondamentale qui svolto, che è, s’intende, l’assenza della vita.
Siamo in un futuro imprecisato ma che – definito come quello dei «giorni in cui non sembreremo umani, ma ancora sapremo come essere tristi» – risulta assai vicino al nostro presente. E c’imbattiamo in tre personaggi (appunto la Macchina da Parlare, il Signor Bruno e iI Cane che Dona Piacere) i quali hanno sostituito la vita con la (corsivo)funzione che svolgono e, nel caso del Signor Bruno, con l’aspirazione a diventare il Presidente Provinciale dell’azienda che gli dà lavoro.
Infatti, stiamo attenti, in particolare, alla Macchina da Parlare. Si chiama Valeria, è di origine argentina, sta per compiere trentatré anni e vive seduta. E una nota dell’autrice precisa: «[…] ci tengo a mettere in chiaro che Valeria è una persona, il fatto che debba sembrare una macchina è puramente una questione “professionale”, una convenzione, una maniera di rendere più comoda la relazione tra lei e il suo utente».
Dunque, il Signor Bruno, che l’ha acquistata per averne una compagnia servile, sotto specie di un corrispettivo di quella che viene altrettanto maldestramente chiamata macchina da scrivere, a conti fatti – e giuste l’epigrafe citata e l’esplicita citazione nel testo del grande praghese – si trova ad avere di fronte Kafka. Poiché il cardine su cui ruota l’intera opera di Kafka è la frattura tra la parola e la realtà: una frattura in conseguenza della quale le cose – private del Nome – acquistano per l’uomo un’oggettualità anonima, per l’appunto, e nello stesso tempo ostile e spietata.
È proprio ciò che accade a Valeria e con Valeria. La quale – ora ch’è stata ridotta a pronunciare parole che sono soltanto suoni, e per giunta prodotti meccanicamente – non a caso rievoca con nostalgia i tempi in cui viveva a Parigi, quelli in cui, dice, «mi era permesso delirare, perdermi dentro il magma del linguaggio e non arrivare in nessun altro luogo che non fosse la Parola… A quel tempo potevo convertire la parola in materia fisica, a quel tempo potevo volare…».
In altri termini, questa Macchina da Parlare, mentre subisce la frattura tra la parola e la realtà denunciata da Kafka, coltiva dentro di sé il sogno che fu di Don Chisciotte, il sogno di farle coincidere, la parola e la realtà. Tanto è vero che a un certo punto, verso la fine, si ribella e, al posto delle parole che da lei pretende il Signor Bruno («devono servire per qualcosa di… buono, concreto, piacevole»), vomita un fiume inarrestabile di suoni sconnessi. Dopo di che afferra un coltello e si taglia la lingua, per trovare una via di fuga nel silenzio.
In qualche modo, lo avrete capito, si avverte ne «La macchina da parlare» l’eco di «Blade Runner», l’anelito dei replicanti che rifiutano la vita a tempo degli organismi artificiali. Dal momento che, del resto, sfocia in una plateale artificiosità pure l’unica apertura verso l’altro da sé, o l’esterno che dir si voglia, concessa a Valeria. Gustavo e Silvia Cristina, gl’innamoratissimi personaggi protagonisti della sua telenovela preferita, «in realtà» – spiega lei al Cane che Dona Piacere – «sono fratello e sorella da parte di padre, un trafficante di armi che qualche puntata fa è diventato buono, si è sposato con una missionaria e ha deciso di uscire dal giro… Tutto finirà bene. Anche se sono fratelli si sposeranno. Questa telenovela è abbastanza progressista».
Sì, è pure divertente il testo della Szpunberg. Ma debbo constatare che risulta, nello stesso tempo, molto ambizioso e, almeno a tratti, piuttosto confuso. L’autrice catalana non sempre riesce a governare con adeguata padronanza l’intreccio degli argomenti ponderosi che ha messo sul tappeto, né a stabilire, sul versante espressivo, il dovuto equilibrio fra la dimensione simbolica dell’insieme e gli effetti per l’appunto comici determinati dalle singole situazioni.
Dal canto suo, la regia di Rosario Mastrota s’accontenta dell’ossequio all’ovvio, adottando le scelte più consone alla lettera del testo e alla pura narratività del plot. Vedi, tanto per fare qualche esempio, le dichiarate movenze da robot attribuite a Valeria, il leitmotiv di «Paroles, paroles» cantata da Dalida e Alain Delon, il realismo spicciolo del sushi mangiato da Valeria con le bacchette e dal Signor Bruno con coltello e forchetta e, specialmente, l’altro leimotiv del disperato e inane ronzio di una mosca prigioniera.
Non resta, in definitiva, che la buona prova degl’interpreti: Antonio Monsellato, Antonio Tintis e, soprattutto, Dalila Cozzolino, assai brava, in particolare, nella sequenza relativa al citato fiume di suoni sconnessi che vomita Valeria.