by Gertrude Cestiè (17/11/2016)
In occasione del debutto dello spettacolo “La Bastarda – una vita coraggiosa”, liberamente ispirato alla vita di Lea Garofalo, noi di Recensito abbiamo incontrato il nucleo fondativo e cuore pulsante della Compagnia Ragli (Rosario Mastrota, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona) che spicca da alcuni anni ormai nel panorama contemporaneo con successo e meritata attenzione per via del proprio impegno nel teatro civile, sociale e antimafia. Lo spettacolo, scritto da Rosario Mastrota con Dalila Cozzolino, Andrea Cappadona, Antonio Monsellato e Rosario Mastrota, debutterà venerdì 18 novembre presso il Circolo Everest di Vimodrone in Lombardia.
La nostra curiosità è stata quella di scoprire un po’ il filo rosso che percorre l’unione e l’intero percorso della Compagnia Ragli fino a questa ultima produzione.
Come nasce la Compagnia Ragli e come si delinea il suo lavoro? Com’è stata la scelta di seguire fin da subito la direzione di un teatro civile, sociale e antimafia?
“Tutto nasce da un incontro tra persone con l’esigenza comune di fare teatro. Un’esigenza animata dalla voglia di raccontare delle storie. Abbiamo deciso di lavorare insieme cercando di guardare in modo diverso il concetto di anormalità e la definizione che ne dà la società. Ovvero cosa la società definisce ‘normale’ e ‘anormale’ e come è possibile riscrivere, muovere, modificare, emancipare questi concetti attraverso la bellezza e la poesia. Il raglio è un tentativo, necessariamente, di esprimersi e comunicare. I nostri “ragli” sono voci che vogliono accadere. Abbiamo scelto di seguire fin da subito la direzione del teatro civile e antimafia, per senso di responsabilità.”
Il vostro ultimo lavoro “La Bastarda – una vita coraggiosa” debutta in un particolare periodo dell’anno in cui si celebra, tra le altre cose, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quanto è importante per voi debuttare in questa occasione non di certo casuale?
“Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulla donna e il 24 novembre ricorre l’anniversario della morte di Lea Garofalo. Quando abbiamo deciso di raccontare la sua storia il pensiero comune è stato quello di omaggiarne la memoria in senso assoluto, riconoscendone la forza e l’amore materno.
Infatti La Bastarda – una vita coraggiosa è il risultato finale del nostro percorso artistico sulla ‘ndrangheta. Dopo i tre spettacoli di fiction che trattano il tema da tre punti di vista differenti (“L’Italia s’è desta”, “Panenostro” e “Ficcasoldi”) ci è sembrato doveroso raccontare la vita di un personaggio che realmente ha vissuto in un contesto ‘ndranghetista (ci è nata, non ha scelto di farne parte) e che lo ha odiato fino alla fine della sua stessa vita, per il bene di sua figlia.
Nello spettacolo intercettiamo la storia di Lea in un momento preciso: il tentativo di rapimento subito dalla donna a casa sua da un finto tecnico della lavatrice e ripercorriamo la sua storia e il suo amore di madre.”
“La Bastarda” è ispirato, appunto, alla storia vera di Lea Garofalo, donna uccisa proprio dalla violenza dell’uomo e della ‘ndrangheta. Com’è stato, per Rosario Mastrota, autore e regista dello spettacolo, approcciarsi a una storia di questo tipo?
“È stato triste ma, ripensando alle difficoltà della donna e al tragico epilogo, è venuta fuori una ostinazione che mi ha scosso. La questione della donna, in Calabria, ma anche in tutto il resto d’Italia e del mondo, è ancora un argomento capace di disintegrare le certezze delle pari opportunità, minando le libertà femminili soggiogate dall’imposizione maschilista. Come scheletro di partenza, lo spettacolo punta i riflettori proprio su questa arcaica sottomissione della fimmina. Nella storia di Lea Garofalo è esemplare come tutto questo bigotto modus operandi della odierna società civile venga sovvertito per l’esigenza della libertà. Lea, infatti, sovverte il processo ribellandosi e questo è destabilizzante per due motivi: prima di tutto perché è una donna, ma soprattutto perché si ribella accusando il suo compagno, uno ‘ndranghetista efferato. Mi piaceva poter riuscire ad evidenziare quanta forza sia stato capace di generare l’amore materno. Lea Garofalo mi fa pensare alla mandorla: una corazza legnosa che protegge un frutto gustoso. La corazza cede ma, moltiplicata sui rami, la mandorla darà filo da torcere ancora una volta, prima di essere vinta e assaporata, e lo farà per sempre, per ogni suo frutto.”
Per la protagonista Dalila Cozzolino che interpreta proprio i panni della Garofalo: com’è il rapporto con il personaggio? Come hai lavorato per affrontarlo, abbracciarlo, vestirlo?
“È un privilegio interpretare Lea, prestare corpo e voce a quello che lei è stata. Non ho pensato di trovare una strada per un “come se fossi lei”. In scena resto io. Io che cito lei, il suo coraggio, la sua fragilità, la sua condizione di atopos, fuori luogo e senza luogo. E citandola mi emoziono, trascendendo ogni finzione scenica. Ogni volta mi emoziono quando le do voce, non riesco a prescindere da un coinvolgimento autentico per una donna straordinaria. E sola.”
Cosa vi spinge quotidianamente come artisti? È più la necessità di dare e darsi un senso per la propria vita o quella di dire qualcosa allo spettatore che entra in contatto col vostro lavoro?
“Direi: darsi un senso concreto e dare allo spettatore qualcosa che possa provocare un’emozione o, quantomeno, regalare una storia. Quotidianamente siamo spinti dall’esigenza (cresciuta negli anni) di offrire credibilità, professionalità e poesia. E ci siamo impegnati negli anni a mantenere fede all’intento. Come ho in parte detto prima, nel nostro teatro (quello di Compagnia Ragli), io, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona, proviamo a disegnare delle piccole storie che conservino la tematica civile e la denuncia di alcuni modus operandi della malavita, ma poniamo l’attenzione sulla forza dell’azione dei nostri personaggi. Talvolta vincenti, talvolta collusi, talvolta vittime. Questa forza corrisponde ad un tentativo di ribellione all’imposizione mafiosa. Per noi l’eroe è sicuramente il più debole. Colui che soffre e vive il male. Oppure ci abita dentro e non lo sa, quindi non lo sa neanche combattere. I deboli, come Carletta, la scema del paese che denuncia un rapimento famoso in “L’Italia s’è desta” o il panettiere innamorato che uccide per la sua donna due usurai che gli chiedono il pizzo e viene arrestato, in “Panenostro”, si animano nel meccanismo teatrale, inventato e semplice: combattere la piaga è innato, basta solo sapere di poterlo fare. Il nostro primario obiettivo è reagire. Lavoriamo quotidianamente per far crescere la nostra realtà, con passione e onestà. Lavoriamo nonostante l’habitat teatrale italiano si faccia sempre più ostile: ci sono tante realtà teatrali meravigliose e poche opportunità per farle accadere. Il teatro sopravvive, in Italia. Ma la sopravvivenza è una condizione dinamica e feroce. E l’auspicio è quello di una redenzione.”