by Alessandro Toppi (07/03/2019)
Per contrasto il primo pensiero venutomi dopo il Macbeth della Compagnia Ragli riguarda Riccardo, quel Riccardo – l’infame, il deforme, l’ingobbito – il Riccardo del Riccardo III, insomma, ma prima che il Riccardo III abbia avuto inizio.
Seconda scena del terzo atto dell’Enrico VI parte terza quindi: Edoardo esce a destra, seguito da un nobile che per noi non ha (e non avrà) mai un nome, e da Giorgio e Lady Gray: “Andiamo” ha infatti detto Edoardo e poi, rivolgendosi a quest’ultima, le ha ordinato: “Tu, vedova, accompagnaci”. Via tutti, dunque, tranne lui, che adesso se ne sta come sta dentro al piatto l’ultimo boccone, come sta uno scoglio quando il mare si ritira: solo, Riccardo giace trattenendo la sua bruttezza spigolosa nella penombra, quasi in fondo al palco: per venti, trenta secondi forse. Poi si guarda attorno, per essere sicuro che non entri nessuno, e avanza trascinando con sé la gobba, la gamba più corta dell’altra e questo braccio, “secco come un arbusto”: guardatemi, dice al pubblico senza parlare, tenendosi sbilenco sull’orlo del proscenio; guardatemi, dice esponendosi al giallo crepitante delle fiaccole che illuminano l’interno oscuro del Teatro Globe: vi sembra mai che possa far innamorare qualche donna? Vi sembra che il mio paradiso in terra possa mai essere il ventre di una fanciulla? Non avrò mai nessuna, con nessuna farò l’amore, a nessuna rivolgerò parole dolci perché nessuna le sentirebbe: impegnata invece a contemplare la mia mostruosità, questo orribile sbaglio di Natura che coincide con me stesso. Non ho speranze, non c’è dunque neanche da pensarci. E allora. E allora se non è questo sarà quello: la mia ossessione diventa adesso il trono, lo scettro, fare il Re. Sappiatelo, ci dice Riccardo nell’Enrico VI, due anni prima che Shakespeare metta mano al Riccardo III. E sappiate, aggiunge, che so bene come si arriva a ottenere questo ruolo, so come ci si comporta in scena da sovrano, sappiate che so bene come interpretare la parte che l’autore vorrà darmi – meglio: che dovrà darmi – finalmente. Occorre uccidere e, mentre si uccide, bisogna ridere. Lo farò. Bisogna piangere per finta, simulare il dolore, lo strazio ed il tormento fino a bagnare di lacrime false le mie gote. Farò anche questo. È necessario che adatti il volto a ogni circostanza: comincio subito. E quando verrà il mio turno, quando l’opera che è in scena porterà il mio nome, quando insomma la corona sarà sulla mia testa vedrete che recita e che attore: bravo nell’arte oratoria più di Nestore, ipocrita più di Ulisse, mutante più di Proteo mentre – per quanto concerne il fine, i mezzi e il rapporto tra fini e mezzi – batterò Machiavelli in machiavellismo. Dice proprio così Riccardo guardando il pubblico: farò “scuola al micidiale Machiavelli”. Un centinaio di pagine dopo – utili perché l’Enrico VI finisca tra gli applausi – e ventiquattro mesi più tardi Riccardo si trascina di nuovo al cospetto del pubblico e apre il suo spettacolo recitandone l’incipit: “Ormai l’inverno del nostro scontento si è fatto estate…” ovvero: dove eravamo rimasti; ci siamo; è giunto il mio momento.
Ebbene. Macbeth non è meno ossessionato dal trono di quanto lo sia Riccardo: sterile forse nel sesso quanto lo è nel braccio il Re ingobbito, Macbeth deve aver pensato, immaginato, bramato più volte la corona al punto tale che – non appena le Sorelle Fatali gli annunciano che un giorno avrà la parte che gli sconvolge la carriera rendendolo immortale (“Sarai Re”) – prima si estrania, si pone cioè in un angolo dell’assito e se ne sta lì intento a una frenesia che prova a comprimere ma che pure s’intuisce (se ne accorge infatti Banquo) e lì dunque genera un a-parte durante il quale associa al presente i pensieri fatti in passato e le prospettive di futuro poi – assentatosi giusto una pagina, perché intanto avvenga un dialogo tra Banquo e Duncan – scrive a sua moglie una lettera nonostante, una pagina e mezza dopo, sia già con lei al castello. Perché le scrive? Per Agostino Lombardo, che all’analisi del Macbeth ha dedicato un libro intero, scrivere gli consente di mettere in ordine i pensieri: “La sua mente ha lavorato” – afferma Lombardo – e, simile a chi prova a razionalizzare tracciando un piano di lavoro su un foglio bianco (è il gesto di prendere appunti su un taccuino, che sarà di Amleto) Macbeth prova a comprendere “lucidamente il senso della situazione” organizzando “in una struttura coerente” circostanze e reazioni ch’erano state, nel suo accadere inaspettato, “frammentarie, confuse, assai caotiche”. Mi incontrarono. Ho appreso. Mentre ero ancora rapito dallo stupore. La grandezza. Già, “la grandezza”. La lettera, aggiunge infatti Lombardo, serve anche a svelare in anticipo “i rapporti tra i coniugi” e a farci capire che proprio la grandezza – la vertigine che deriva dall’atto di avere sulla testa la corona – è già stata, e più volte, argomento di discussione: “Ho ritenuto giusto comunicarti, amatissima mia compagna di grandezza (“greatness”), affinché tu non perdessi il piacere a te dovuto, ignorando quale grandezza (di nuovo “greatness”) ti sia stata promessa”. Qui comincia davvero il Macbeth, qui cominciano le prove della coppia per rendere tangibile e concreta la traccia aleatoria e autorale di partenza: qui, insomma, cominciano i tentativi per far seguire allo spunto iniziale dato dal copione (quel “Salve a te, che un giorno sarai Re” detto nell’atto primo, scena terza, e che costituisce “il prologo all’azione del tema imperiale”) uno spettacolo che sia degno di tal tema.
Più del finto pazzo Amleto quindi, che impone allo zio la rappresentazione usufruendo di una compagnia di giro e di un vecchio testo ch’egli adatta alla situazione, e quasi più di Jago – che dirige Otello perché avvenga uno spettacolo verbottico, nel quale la parola monta l’immaginazione rendendo visibile quel che non è mai accaduto – Lady Macbeth e suo marito, agendo come agiscono una regista ed un performer (“Tu vuoi avere ciò che grida: devi fare così!” dice non a caso Lady Macbeth al consorte e d’altro canto “Dolce suggeritrice” definisce sua moglie Macbeth), per quasi due atti interi (“la parte più grande del dramma”, per Bradley) ragionano non sulla base di ciò che sono ma di ciò che potrebbero diventare e cercano la giusta forma da dare alla messinscena, provano la traduzione e l’incarnazione del dettato, compiono allestimenti e improvvisazioni attorali. “Abbi il benvenuto nell’orecchio, nella mano e nella lingua”; “appari come il fiore innocente”, “assumi un’aria serena”; “inganniamo il mondo con l’apparenza più lieta”, “non parlare”, “stringi le corde del coraggio”, “spiana la fronte aggrottata”, “non perderti nei tuoi pensieri”, “sii allegro e cordiale”, “non pensarci troppo” e “perché hai lasciato la sala?”, i pugnali “debbono restare lì: va e rimettili al loro posto”, “imbratta di sangue le guardie addormentate”, “vai a prendere dell’acqua”, “ritiriamoci nella nostra stanza”, “indossa la vestaglia affinché non si scopra che siamo ancora alzati”, adesso “pronuncia il brindisi”. Insomma: uccidi e mentre uccidi ridi, come fa Riccardo; come Riccardo recita il dolore, lo strazio ed il tormento fino a bagnare di lacrime false le tue gote; adatta – come Riccardo – il volto a ogni circostanza e sii più bravo di Nestore nell’oratoria, supera Ulisse in ipocrisia, muta forma più di Proteo, fai scuola di machiavellismo “al micidiale Machiavelli”.
Ma che attore è dunque Macbeth? Come per ogni spettacolo che si rispetti la critica si divide, parteggia, alterna elogi e stroncature.
Per Hazlitt Macbeth è “simile a un vascello che va alla deriva”: comincia bene ma poi “barcolla avanti e indietro come farebbe un ubriaco, vacilla sotto il peso dei suoi propositi” e non “tiene testa alla situazione”. Per Krippendorf invece, collocato in una condizione oscura, scenicamente povera e materialmente insufficiente (i personaggi non si sa da dove vengano, “mancano riferimenti precisi relativi ai luoghi dell’azione”, l’appuntamento avviene genericamente “sulla brughiera” e “il castello potrebbe trovarsi ovunque”) riesce a realizzare – attraverso l’uso smodato di un corpo che è già parola – una magnifica “rappresentazione visuale-atmosferica”. Murry concorda con Krippendorf e chiude il capitolo dedicato al Macbeth con un parere netto: il protagonista si comporta come “richiede la composizione del dramma”, punto. Per Jan Kott, al contrario, Macbeth dimostra di “non essersi riuscito ad adattare a un ruolo che ha sentito estraneo a sé”; per Manferlotti “sbaglia a interpretare le parole delle Sorelle Fatali” e “operando razionalmente sul linguaggio” segue “una logica naturalistica”; per Nadia Fusini “per come ha recitato”, soprattutto dopo il delitto, “Macbeth non ha convinto nessuno della sua innocenza” e “anche come Re ha sbagliato tono: ha recitato sopra le righe la parte del tiranno senza che l’immagine, falsa nel suo caso, riuscisse veritiera” mentre Baldini è di parere opposto: Macbeth (e Lady Macbeth) dimostrano “animo regale ed energie sufficienti per reggere la parte”. Franco Ricordi non ha alcun dubbio: attraverso un “coinvolgimento psicofisico” che non ha pari Macbeth è in grado di comunicare “in carne e ossa” gli eccessi della trama: ci fa vedere il sangue anche se è solo una macchia di colore; ci fa vedere l’uccisione anche se è uno dei rari omicidi che l’autore fa avvenire fuori scena; ci fa vedere – esagerando nei gesti e moltiplicando l’esecuzione in un massacro – il crollo dell’Uomo ovvero il passaggio immediato che dal cielo l’Uomo compie verso la più abietta tra le voragini. Per questo dunque Macbeth va considerato “l’attore di Shakespeare per eccellenza” e “l’incarnazione in termini di dramatis personae della filosofia shakespeariana”. Bradley, il massimo esperto delle tragedie di William Shakespeare, compie un discorso più articolato e – simile a quei critici che sono poco interessati a esprimere un giudizio e molto più propensi all’approfondimento – dedica pagine e pagine all’immaginazione macbethiana: è “sensibile” quanto quella “di un poeta” ed è “perturbata” neanche fosse in trancetant’è che Macbeth – simile a un interprete che, “a partire dalle circostanze date”, improvvisa la sua performancevenendone progressivamente posseduto – produce attraverso gli unici veri strumenti che ha a disposizione (il corpo, la parola) una sequela d’immagini impressionanti: il latte della concordia versato all’Inferno; la terra scossa dalla febbre; il pugnale che guida all’omicidio e i morti che tornano in forma di spettri, le sofferenze che schiaffeggiano il volto del cielo, l’embrione di serpente senza denti, l’animo giacente sulla ruota della tortura, la mente piena di scorpioni e la vita simile a una favola raccontata da un idiota. Da lui “erompe dunque l’azione”, è lui la sua stessa messinscena, con lui coincide lo spettacolo (intra)veduto al punto tale che tutti gli altri personaggi – fatta eccezione per sua moglie – hanno lo scarso spessore delle apparenze, sono comparse fugaci, rappresentano figure appena accennate, “senza tratti distinguibili”, tanto che le loro battute potrebbero essere scambiate senza che la trama ne risenta. Con Bradley è d’accordo Harold Bloom il quale scrive che “Macbeth è un medium dell’occulto”, è “un agente visionario”, è “un veggente involontario” che “dice sempre più di quanto intenda e che immagina più di quanto dica” e lo è talmente – aggiunge – che, proprio perché extra-vede, spacca dall’interno il testo, lo frantuma, ne disintegra la forma e l’equilibrio: si fa “più grande dell’opera che lo contiene” e perciò “sbaglia di continuo le battute d’entrata”, “inventa trame senza sosta ma non riesce a far andare il (suo) dramma nella direzione voluta” e “lo pasticcia” al punto tale che sostituisce “la bellezza della dizione” col “rumore” negando la possibilità di “una falsa comprensione” e – dopo averlo attratto a sé – abbandona il pubblico agli echi degli effetti, confusi e palpitanti, accumulatisi nel corso della tragedia.
Infine.
Forse è ripensando alle frasi di Harold Bloom che mi viene in mente Carmelo Bene quando – nel commentare il suo Macbeth Horror Suite – afferma che Macbeth e Lady Macbeth sono “due grandi attori” intenti a bussare “al loro stesso terrore”, affannati “alla ricerca perpetua dell’autospavento”. Perciò, secondo Bene, “vestono e svestono umori” e, muovendosi tra “un’oggettistica da trovarobato”, procedono per tentativi allestendo un’azione fatta di movimenti, voci, pantomime, rimbombi e pianto che non è vero pianto, e riso che non è vero riso, e scivolamenti, cadute, ripetizioni verbali e gestuali, tra un continuo dire e l’afasia, in un pieno di sentimenti simulati e lacerti che non sono mai verosimili e credibili: così, ad esempio, “il corpo svolge e rivolge una benda insanguinata: nessuna piaga” tuttavia – sia chiaro – giacché “è la benda e non il braccio” ad essere macchiato. Un gioco di scena, quindi è il Macbeth per Carmelo Bene: è un’evocazione d’assito, un atto artigianale, è la messa in sequenza di qualche brandello che per sfondo ha la mancanza, il fallimento, una parete nera quant’è nero il nulla. “Macbeth è un fortfait di scena” conclude infatti Bene e, nonostante il suo protagonista sia “un eroe annientato dal suo stesso progetto”, questo progetto pur tuttavia lo manifesta: senza interpretarlo, standone al tempo stesso dentro e fuori, rendendolo una sequenza “tragicomica” di resti, tracce vitali, cascami rovinosi.
Una sequenza tragicomica di resti, tracce vitali, cascami rovinosi: è proprio quello di cui è fatto il Macbeth di Dalila Cozzolino.
Sul palco pendono quattro elmi militari: richiamano in scena Duncan, Malcom, Ross e un soldato (i parlanti dell’atto primo, scene prima e seconda) e rimandano alla mia mente una didascalia del testo (atto quarto, scena prima: “Prima apparizione: testa con elmo”) ma – soprattutto – mi sembra che formino un rettangolo ideale che costituisce il perimetro effettivo all’interno del quale avviene questo Macbeth. Nell’angolo posteriore destro c’è un fagotto, in quello sinistro un calice pieno di borotalco. In proscenio quattro teli bianchi congiungono l’assito con la sala suggerendomi che è attraverso il fantasmatico che palco e platea potranno mettersi in rapporto, condividere un’esperienza, rivivere (fino a ri-cor-dare) lembi della trama.
Dalila Cozzolino viene da destra e si posiziona col corpo voltato verso il fondo, un rettangolo di luce ne illumina parte del busto mentre il piede sinistro batte sul palco definendo un ritmo che, nel rispetto della numerologia dell’opera, moltiplica più volte il tre. Sono i colpi che scuotono il Macbeth durante l’atto secondo, scena terza – sono insomma i colpi dati al Portone dell’Inferno (metafisica) per il Portiere; sono i colpi dati alla “Porta d’ingresso a sud” (concretezza scenica) per Lady Macbeth – ma sono anche i colpi evocati dalle Streghe (“Apritevi serrature, chiunque sia che bussi”) e sono la traccia sonora che, come rimbombando nel silenzio, rimanda subito a una delle caratteristiche che contraddistingue Macbeth: al contrario della moglie, infatti, egli cede all’irrazionale e – simile a chi converte in numeri ogni evento per giocarseli poi al Lotto – assegna un significato a tutto ciò che nota tant’è che per lui diventano “un auspicio” il suono delle campane, l’insistenza del vento, il verso dei corvi e delle cornacchie, l’immobilità delle pietre, il volo di un pipistrello, l’andatura dei passi, il frusciare degli alberi, il ronzio di uno scarabeo, il contenuto di una frase, la forma che hanno le nuvole e questi tocchi alla porta che – come afferma Baldini – rendono l’agitazione d’animo del protagonista e sono il preludio/richiamo perché i morti tornino davvero. “Spegniti breve candela, spegniti” dice quindi la Cozzolino, guadagnata la frontalità, partendo da una battuta che appartiene all’atto quinto, scena quinta; partendo dalla fine, quindi, partendo cioè dal “povero attore che si pavoneggia sulla scena”: perché? Proprio per dirci che, questa sera, una povera attrice si pavoneggia sulla scena provando a rendere stralci del Macbeth che è già stato: in troppi altrove, un milione di volte almeno. L’opera di Shakespeare è dunque il presupposto a partire dal quale compiere tentativi, allestimenti momentanei, “praticaccia” direbbe Carmelo Bene fino – si spera – all’evocazione dell’invisibile ovvero alla resa pulviscolare di un’opera che, ormai lo abbiamo capito, si disfa nel suo darsi. Quel che mette in scena la Cozzolino è dunque, più che lo spettacolo, un processo: è il processo (fallimentare) messo in atto da Macbeth, nel Macbeth, quando prova a interpretare il Re ed è il processo che ogni attore compie quando – data una trama – s’interroga su come coniugarla in fatti, azioni, movimenti e dettagli, intrecci dialogici, un’altra forma posta in scena. Sono qui, davanti a voi. Badate dunque a me, “Badate alla signora”.
Badate a me che ho un po’ di trucco blu attorno agli occhi (la notte) e che col cappotto addosso fungo da Portiere, badate a me che non ho che pochi oggetti intorno mentre dall’alto viene ogni tanto un taglio di luce colorata – il verde, che richiama la radura (ma forse anche “la candela verde, merdra” di Padre Ubu), il turchese che fa sera sul palco mentre quando sono in pieno rosso sembro la Lady che già pensa all’omicidio. Badate a me quando afferro i drappi bianchi e li appendo agli elmi producendo la presenza dei fantasmi; badate a me quando impolvero di borotalco l’aria rendendo la canuta vecchiaia di Duncan, “la nebbia e l’aria sporca” nella quale appaiono le Streghe e la memoria di questa trama, che prima o poi essa stessa “sarà nebbia”; badate a me quando afferro il fagotto, lo cullo in grembo e poi lo porto al petto, così inscenando il neonato che la Lady si strapperebbe dal capezzolo in cambio del Potere; badate a quando apro il fagotto e ne esce un trespolo di legno e badate a tutte le volte che ci salgo: accenno così l’alta apparizione delle Streghe (“Questi esseri che ci stanno sopra”), l’avvicinamento accidentato della Lady al trono, Macbeth diventato finalmente Re. Badate a me quando m’infilo il lenzuolo sotto al mento, come fosse un tovagliolo gigantesco, perché adesso siamo a cena, e badate quando questo lenzuolo lo indosso come una toga, perché faccio Macbeth che fa il sovrano e perché Macbeth – in quanto sovrano e nel pieno del combattimento – di sé dice: “Perché recitare la parte dello sciocco romano e morire sulla mia spada?”. Badate a me quando piazzo nel mezzo della lettera che Macbeth invia a sua moglie parte dei ragionamenti che Macbeth compie (atto primo, scena terza) subito dopo aver ascoltato le tre Streghe; quando spezzo la frase (“Faremo tra un attimo un primo giro di…”) così rendendo il brindisi interrotto nell’atto terzo, scena quarta; quando dico due volte “Buonanotte” tenendo le scarpe in mano, come stessi andando a letto, prima di dirvi “Buonanotte, signori” puntandovi la luce della torcia sulla faccia.
Badate a me, “Badate alla signora”.
Badate a me quando scrivo la lettera nell’aria, quando accenno a bere (“Ho bisogno di bere!”), quando mi batto il pugno sul torace facendovi sentire come cardio-accelera un’amicizia che sta per diventare un assassinio; badate a me quando con la torcia m’illumino il polpaccio, un gomito, una spalla, naso e mento perché è in questo modo che provo a farvi intravedere l’uomo (“Alto, con certe spalle, la mascella severa”, addosso ancora “l’odore pungente della battaglia”) con il quale secondo me sta dormendo Malcom: intuizione che mi è venuta leggendo la frase “Due dormono assieme” con cui Lady Macbeth descrive a suo marito i soldati che proteggono Re Duncan. Badate ai miei piedi: inciampano per rendere l’incerta femminilità di Lady Macbeth, schiacciano l’assito quando si tratta di rendere la battuta “Gli avrei fracassato la testa se avessi giurato come hai giurato tu”, salgono e scendono dal trespolo quando i morti tornano e provano “a scalzarci dal trono”. Badate alle venti cadute circa con cui rendo – per esagerazione – il finto mancamento della Lady; badate a quando mi rannicchio in posizione fetale (“Ci abbassiamo a terra ma non ci addormentiamo”) e quando mi siedo accompagnando così la frase “Ci sediamo ad ascoltarli a bocca aperta”. Badate a quando parlo col coltello tenendolo nella mano destra, la torcia è nella sinistra, proiettando sul fondo l’ombra ingigantita della lama (atto secondo, scena seconda); badate a quando metto e tolgo l’elmo per rendere l’ultimo colloquio tra Banquo e Macbeth; badate a quando insceno il dialogo tra Macbeth e Lady Macbeth muovendo il piede nudo o usando le scarpe come fossero due marionette; badate a quando dirigo la luce della torcia in ogni dove, illuminando le pareti del teatro e così restituendo il sussulto di spavento che prova Macbeth al suono delle campane. Badate a quando poggio le dita all’orecchio, come avessi un auricolare, per ascoltare indicazioni che sembrano venirmi da chissà dove (l’aldilà? L’assurdo buio del Macbeth? La cabina di regia?) e badate quando porto la mano sulla fronte: perché la vita è “una febbre” ci dice Macbeth; perché della rivelazione delle Streghe Banquo, riferendosi a Macbeth, dice “Questo, creduto alla lettera, potrebbe infiammarvi a desiderare la corona” e perché Lennox afferma, rendendone conferma, che “la terra tremò per la febbre” la notte in cui Macbeth uccide Duncan.
Badate a me, “Badate alla signora”.
Badate a quando alludo o accenno a Bacone e al Saggio sulla visione degli spiriti di Schopenhauer, quando cito le pietanze del primo atto, scena terza, dell’Ubu Re di Alfred Jarry e badate, soprattutto, a quando dico frasi stappate al quarto capitolo di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene perché è a Carmelo Bene – e alla sua concezione dell’attore – che in qualche modo (e in piccola parte; in questo mio primo tentativo di regia allestito su me stessa) ho provato ad ispirarmi: perché Carmelo Bene pensa all’attore come a un medium che gioca con la leggerezza e armeggia la confusione; perché pensa a un attore che si sdoppia di continuo, a un attore che organizza la propria dimensione lì dove finisce ogni misura, a un attore che circonda il ruolo senza mai farlo suo, che si espone ai propri pensieri, che persevera e fallisce, che sta sul palco rivendicando la solitudine come una condizione minoritaria e una diversità implacabile (così è davvero “l’umile ipocrites che pone domande sull’esistenza davanti al Coro della Società o dello Stato – quello sì in perenne autorappresentazione” per dirla con Giacchè). Mi sono ispirata a Carmelo Bene perché Carmelo Bene pensa all’attore come a colui che tenta vanamente – disperatamente – di salire i fili che discendono dal cielo e, nel farlo, associa alla poesia il basso praticantato, l’artigianato misero, i più vecchi trucchi di questo mestiere; perché l’attore di Carmelo Bene esalta la pochezza e l’unicità del corpo (è tutto quello che abbiamo, è ciò che ci distingue, è il mezzo che ho per dirvi); perché l’attore di Carmelo Bene non è mai in se stesso (proprio come Macbeth, direbbe Kott, che “si definisce per negazione” e, come un attore, “è tutto quello che non è”); perché per Carmelo Bene l’attore è l’unico essere deputato a intrattenere rapporti professionali con la visione, con l’inesistente ed il mistero.
E infine (e qui termino).
Badate a me, solo a me e non più alla signora, quando mi siedo e vi guardo e guardandovi vi parlo dicendovi com’è che muore questa storia, di cui già sapevate tutto prima di entrare e mettervi comodi in poltrona. Perché in fondo – accese ormai le luci, dismesso ogni costume – cos’altro conta se non questo tempo e questa occasione (preziosa? Sprecata? Incerta? Vana? Fate voi) in cui abbiamo tentato assieme: io giocando al “facciamo che sei Re” su un palco dal quale, vi assicuro, un’attrice “vede tutto, anche la paura”, e voi stando invece lì e, da lì, provando a credermi così credendo – per poco meno di un’ora – “a quello che non c’è”.
Già, “non c’è” ma “io lo trovo, ecco, te lo mostro, te lo regalo”.
O almeno ci ho provato.
È questo che fa un attore.
“Prendi”.
Macbeth aut Idola Theatri
da Macbeth
di William Shakespeare
drammaturgia, regia Dalila Cozzolino
con Dalila Cozzolino
collaborazione alla regia Rachele Minelli
luci e suono Giacomo Cursi
produzione Compagnia Ragli
coproduzione Emergenze Romane, Sala RomaTeatri
lingua italiano
durata 55′
Napoli, Sala Ichòs, 27 gennaio 2019
in scena 26 e 27 gennaio 2019