By Viviana Raciti (05/02/2015)
Come per le mode, anche le droghe si aggiornano seguendo il trend del momento. Leggendola da una prospettiva sociale, se i Settanta erano caratterizzati dall’ebbrezza conviviale della cannabis e dei trip da allucinogeni, la depressione degli anni Ottanta trascinò nel tunnel dell’eroina e nei Novanta ci si spinse verso le sintesi da laboratorio, qual è la dipendenza dei nostri anni? Generalizzando – ma nemmeno poi molto – viene da proporre un collegamento trasversale tra la predominanza del mondo virtuale e una propensione verso dinamiche da isolamento, nelle quali confluiscono il desiderio disperato di appagamento e di consolazione senza fine che caratterizzano la ludopatia. La sindrome da gioco compulsivo è uno dei motori primi di Ficcasoldi, che, assieme a L’Italia s’è desta e Panenostro, completa la trilogia prodotta dalla Compagnia Ragli, il cui obiettivo civile – coniugato ad una ricerca e definizione artistica – risiede nella “smitizzazione della ‘ndrangheta” .
In questo terzo momento scritto e diretto – come gli altri due – da Rosario Mastrota, vincitore del Premio 2013 Giovani Realtà del Teatro e presentato da poco al Teatro Tordinona, le due tematiche si trovano legate a filo doppio e la storia diventa un pretesto per smascherare lo sfruttamento da parte dell’Onorata Società dei ludo-dipendenti a coprire il riciclaggio di denaro sporco. La discesa verso l’inferno di tale dipendenza – per la quale sono state dimostrate da tempo, anche se non ancora comunemente accettate, le trasformazioni fisiche tipiche delle altre sostanze psicotrope – vede come protagonista un uomo (efficacemente reso da Andrea Cappadona nella sua progressiva apatia) all’alba della crisi economica in cui cade la sua attività commerciale. Scatole di cartone contengono vestiti smunti, ma nascondono i simboli del gioco e rivelano anche la natura artigianale del teatro dei Ragli, che sul ritmo drammaturgico e attoriale fonda le proprie basi.
Come le caselle della slot-machine le scene si susseguono con micro variazioni tra l’una e l’altra: l’eterna giocata, la richiesta dell’ennesimo prestito, la fugace compagnia prima della fidanzata e poi del barista Ettorino (convincente Gianni Spezzano, al limite tra l’ingenuità e la loschezza). La dimensione del verosimile è interrotta a volte da brevi intermezzi onirici nei quali due ambigue e sgargianti figure determinano il percorso del protagonista, quasi replicando il tintinnio di luci intermittenti che confermano la vincita e consacrano la dipendenza. Risucchiato nel circolo vizioso fino al tragico epilogo reso noto dagli interrogatori delle donne (da un lato l’attonita fidanzata e dall’altro l’impunita agente mafiosa Nina Lettì, interpretazioni speculari di Dalila Cozzolino), viene fuori la sua sorte di impiccato coatto, “fatto suicidare” dallo stesso meccanismo che lo aveva inglobato. Se a questo apice precedeva una spersonalizzazione del protagonista, la cui identità volutamente rimane anonima, i due personaggi più ambigui hanno entrambi nome e sembrano nel tratteggio delle personalità i più interessanti, coloro per cui paradossalmente parteggiare. Il ritmo di quest’atto unico si ritrova nelle azioni dello stesso protagonista, schiacciato nel tempo di fronte al suo ruolo di ficca soldi, la rarefazione della scena assume su di sé lo stesso svuotamento mentale; la ‘ndrangheta si insinua facilmente nelle menti e nell’immaginario come la possibilità di un guadagno facile: offre la mano, incanta con i suoi colorati frutti e strega, insinuandosi nella vita senza fornire una possibilità di uscita.
Viviana Raciti
FICCASOLDI
con Andrea Cappadona, Dalila Cozzolino, Gianni Spezzano
scenografia Zelia Carbone
ufficio stampa Emilio Nigro
grafica Nicola Mastrota
logistica Ettore Nasa
testo, luci e regia Rosario Mastrota
produzione Compagnia Ragli
con il patrocinio di Associazione daSud