Il gioco, la caricatura

by Alessandro Toppi (28/01/2015)

ilpickwick.it

Il doubling attoriale. Gli intermezzi musicali, durante i quali avvengono brevi siparietti cabarettistici. L’entra-ed-esci dalla recita, con l’attore seduto di lato e visibile al pubblico. Lo smascheramento scenografico, per cui una scatola di cartone si rivela una slot. La parete di fondo, composta da gratta-e-vinci scaduti e che funge da segno tematico. La prima immagine, che fa da prologo argomentativo mimando il gioco delle tre carte. L’inserimento di monologhi-confessione in una trama dialogica. L’esposizione in ribalta, in pieno faro, diretta agli spettatori, rarefacendo la plausibilità della quarta parete. Gli spot comici, sonoro oltre-palco che determina lo stacco tra una scena e una scena. L’andamento episodico, volutamente didascalico. L’immedesimazione momentanea, senza continuità, a smentire ogni possibile verosimiglianza recitativa.

Ficcasoldi non mima una storia di ‘ndrangheta e Stato, che fa di un uomo la larva di un uomo, di una donna una vedova, di un barista un complice astuto e servente; piuttosto espone una vicenda qualsiasi, consueta nella sua drammatica banalità quotidiana, facendone offerta esemplare, denuncia satirica e voluta dimostrazione (im)morale. Per questo non c’è – in Ficcasoldi – l’interpretazione verista né c’è un approfondimento emotivo dei personaggi mentre ci sono invece tre figure emblematiche (Lei, Lui, L’altro, in un triangolo in cui L’altro separa Lui da Lei conducendolo prima al vizio del gioco, poi all’imbroglio, infine alla morte) che sono sagome buone per fare analisi, messa in evidenza e critica del fenomeno con cui si sta facendo spettacolo.
L’altro. Ettorino, il barista. Occorre concentrare l’attenzione su Ettorino se si vuol comprendere la dinamica di Ficcasoldigiacché Ettorino non è solo Ettorino – napoletano, guascone, simpatico, amante del calcio e della battuta facile; amichevole nel momento del disagio, generoso addirittura nel concedere un prestito – ma è piuttosto strumento pratico, utile e necessario attraverso cui istituzioni e malavita s’adoperano, togliendo a chi già non ha nulla, per rimpinguarsi le tasche. Ettorino dunque è cosa prima che persona, è mezzo, espediente e veicolo e perciò rimanda a chi non vediamo, a chi vive oltrepalco: rimanda a chi le slot le regolarizza, a chi le produce, le vende e le trasporta; a chi  le sistema, le tara, le trucca; rimanda a chi ci guadagna, a chi ci lucra, a chi c’incassa le tasse o ricicla il denaro. Occorre osservare Ettorino – in Ficcasoldi – per aver chiaro il messaggio dell’opera: il barista, infatti, osserva, ascolta, accoglie, compiace, accompagna, dà sollievo, tranquillizza, incoraggia, stimola, induce, controlla, convince, approfitta, tartassa, costringe e infine strozza il malcapitato e – questo suo fare – non è altro che la resa personalizzata in assito del comportamento che Stato e criminalità attuano su scala sociale, collettiva, nazionale.
Abbiamo dunque una situazione iniziale di disagio: una coppia, unitissima, per la quale ordinare una pizza è “una mattana” e aggiungervi “funghi e salsiccia” fa della cena un “menù da vip”. Fallisce, il loro negozio, e così si ritrovano la casa piena di maglioni, una macchina da vendere ma che non riescono a vendere, un futuro da inventare. È in questa condizione comune, condivisa, ancora gestibile finché Lei e Lui restano assieme che la drammaturgia di Rosario Mastrota inserisce l’elemento disturbante, nocivo, pestilenziale: Ettorino, il suo bar, la sua slot. Lei prosegue con la fatica, il sudore, l’impegno (“Ho le scale di sette condomini da lavare”) mentre Lui passa le mattine e i pomeriggi e le sere e poi le notti a premere ossessivamente i pulsanti: “settemila volte al giorno, ci provo”. Diversità comportamentale, quella tra Lei e Lui, necessaria perché Ficcasoldi possa sviluppare la sua argomentazione: ponendo in contrasto i due, l’opera mette a confronto abnegazione e dissipazione di sé, maturità e perdizione, impegno e nullafacenza. Esemplificativo un momento centrale dello spettacolo: Lui chiede ed ottiene i cinquanta euro per giocare da Lei che, stanca, è appena tornata da una pesante giornata di lavoro. Destinati a perdersi, questi cinquanta euro diventano spiccioli prima e poi fissità di sguardo, colpi alla slot, recriminazioni, nulla assoluto. Lavoro, spreco, indebitamento. È così che il denaro guadagnato diventa denaro perduto. Finirà – questa vicenda – come deve finire. Tardiva ogni forma di riscatto, impossibile il recupero della propria libertà: quando Lui parla, confessa, fa denuncia lo attende un cappio: omicidio mascherato da suicidio; perché il gioco prosegua. “Commissà, vi volete fare un partita?”.
Nel complesso Ficcasoldi funziona perché rinuncia alla convenzionalità della trama recitata dall’inizio alla fine e privilegia, invece, la divertita epicità della dimostrazione teatrale. Esponendo chiaramente i suoi trucchi, facendo di un attore o un’attrice il/la testimone della storia che vive a centro palco, organizzando intermezzi danzati, brevi sketch mimici e rimandando spot paradossali riesce a sottrarre il tema all’annoiante convenzionalità del teatro civile, che fa morale illustrando i suoi meriti, che parla soltanto a chi è già convinto, che ottiene gli applausi rimarcando la sua santità e la sua correttezza. Accade invece, con Ficcasoldi, che il pathos emotivo destinato a chi fa da vittima sia controbilanciato dall’ilarità estetica della visione, tuttavia solo in apparenza leggera ma invece ingannatoria anch’essa, tentatrice, crudele. È facile infatti mettere in relazione l’abbellimento divertito dello spettacolo – le sue cravatte dorate, gli occhiali da sole, i motivetti cantati, la scritta “Bar aperto” che luccica – con la pervasività colorata del sistema, che fa promozione pubblicitaria dell’imbroglio coi finti sorrisi, le promesse illusorie, gli sgargianti spot da prima serata. Tragedia vestita da farsa per un delitto che viene compiuto facendo giocare l’oppresso: Ficcasoldi non fa che rimodellare l’ipocrisia di chi gestisce la riffa rendendola uno spettacolo ridicolo, in cui le risate servono a mascherare o seppellire lo strazio, il dolore, la perdita.
Sia chiaro, non mancano momenti nel quale la resa rallenta, in cui si notano frammenti d’eccessiva facilità compositiva, né manca una certa prevedibilità di fondo alla trama ma siamo comunque al cospetto di una buona prova complessiva da parte di una compagnia giovane, che con mestiere e crescente consapevolezza dei mezzi, con sfrontatezza e ritmicità calibrata, continua la propria indagine sul Paese attraverso il grottesco, la marcatura goffa ed amara, la pantomima dichiarata. All’usuale senso di misura patetico, compartecipativo e vagamente pietoso di certo teatro di denuncia, la Compagnia Ragli preferisce il ghigno, l’eccesso cromatico, la sottolineatura e perciò espone maschere prima che volti, icone funzionali più che uomini e donne reali. S’inumidiscono gli occhi, a Lei, ma capita poco dopo aver dato corpo e parola dialettale alla donna della mala; si confessa Lui, stando sull’orlo del palco, dopo aver preso parte a una coreografia collettiva; mostra la propria ambiguità luciferina L’altro, due minuti dopo aver posato zaino e occhiali da sole sulla sedia a sinistra: è in questo rifiuto della plausibilità sentimentale e della linearità del teatro illusorio che risiede il merito di Ficcasoldi.
Ne viene, così, non il ritratto al millimetro di un furbo male italiano ma la sua caricatura oltre bordo: forzata, eccedente ed esasperata  e – perciò – più triste giacché più veritiera.

Ficcasoldi
di Rosario Mastrota
regia Rosario Mastrota
con Andrea Cappadona, Dalila Cozzolino, Gianni Spezzano
scene Zelia Carbone
luci Rosario Mastrota
logistica Ettore Nasa
produzione Compagnia Ragli
con il patrocinio di Associazione daSud
lingua italiano, dialetto napoletano, dialetto calabrese
durata 1h
Roma, Teatro Tordinona, 25 gennaio 2015
in scena dal 20 al 25 gennaio 2015

Share:

Leave a Reply

@ 2020 Compagnia Ragli - Tutti i diritti riservati